11 Ottobre 2024

“Aspettando Godot” ovvero la tormentata vicenda della procedura di quantificazione della pena a carico di Donald Trump

A cura di Costanza Orsi (Università di Pisa)

SOMMARIO: 1. Il sentencing statunitense nell’attualità del caso Trump. – 2. A chi spetta la determinazione della pena? Storia di un’indebita commistione di ruoli. – 3. Un’udienza di sentencing nel panorama italiano: il “nuovo” art. 545-bis c.p.p. – 3.1. Il passo indietro del decreto correttivo n. 31 del 2024

1. Il sentencing statunitense nell’attualità del caso Trump

Il tema del c.d. sentencing è tornato al centro dell’attenzione non solo dei cultori della materia giuridica ma anche dell’opinione pubblica a seguito delle vicende giudiziarie che hanno interessato Donald Trump, candidato repubblicano alle elezioni presidenziali previste per il novembre di questo anno. Inevitabile punto di partenza è la sentenza pronunciata dalla Supreme Court ad inizio luglio, una sentenza non a caso definita dal giudice Neil Gorsuch «for the ages»1 in quanto destinata a mutare radicalmente il regime di responsabilità del Presidente degli Stati Uniti. Il supremo organo giudiziario statunitense ha, in particolare, distinto un triplice regime a seconda che l’atto del quale si ipotizzi una rilevanza penale sia un official act ovvero un unofficial act. Per i primi è prevista un’immunità assoluta, laddove si tratti di atti che siano traduzione dei poteri costituzionali attribuiti al Presidente, e una presumptive immunity, laddove invece si tratti di atti compiuti nell’esercizio di funzioni presidenziali, cioè a dire che per questi ultimi l’esercizio dell’azione penale è ammesso a condizione che non determini un’indebita ingerenza nell’esercizio del potere esecutivo; venendo invece del tutto esclusa per i secondi ogni forma di immunità trattandosi di condotte tenute dal Presidente nella sfera prettamente privata. Non solo, la Supreme Court ha escluso che atti coperti da immunità (assoluta o presuntiva che sia) non potranno essere utilizzati a fini probatori in quei procedimenti relativi a private criminal acts. Questa statuizione ha avuto rilevanti ripercussioni processuali sul verdetto di condanna pronunciato dalla giuria di New York per tutti e trentaquattro i capi di imputazione contestati a Trump2. In primo luogo poiché ha indotto il giudice di New York Juan M. Merchan, competente a pronunciarsi sulla determinazione della pena, a rinviare l’udienza di sentencing dapprima al 15 luglio e poi al 18 settembre e ciò al fine di consentire alle parti una valutazione della eventuale applicabilità della sentenza della Supreme Court al caso di specie. Non solo, si è addirittura ipotizzato, da parte dei difensori del tycoon, l’annullamento del verdetto pronunciato a New York proprio sulla base dell’inutilizzabilità probatoria di taluni atti3 considerati dalla difesa l’asse portante della condanna senza il quale questa sarebbe stata inevitabilmente destinata a cadere.  La richiesta dei difensori ha però ricevuto una risposta fortemente contraria contenuta nel People’s memorandum of law in opposition to defendant’s post trial motion 4 in cui si è escluso che gli atti probatori consistenti in “tweets” potessero considerarsi coperti da immunità, posto che «the Supreme Court specifically recognized that defendant could make public statements – including Tweets – in unofficial capacity such as he spoke as a candidate for office or party leader».  Una simile presa di posizione ha indotto i difensori di Trump a presentare una mozione in sede di appello, il che, quasi come un effetto a cascata, ha indotto il giudice Merchan a rinviare nuovamente l’udienza per la determinazione della condanna al 26 novembre, vale a dire dopo la conclusione delle elezioni presidenziali. A parere del giudice, in particolare, «the adjournment is necessary to provide adequate time to “assess and pursue” appellate options […] and to avoid the potential politically prejudicial impact that a public sentencing could have on him and his prospects in the upcoming elections». La tipica bifurcation del processo penale d’oltre oceano ha dunque consentito, nel caso di specie, di evitare che la sentenza di condanna potesse produrre effetti pregiudizievoli sull’imputato – candidato alla presidenza – così dandosi luogo ad un indebito privilegio a favore di chi abbia svolto o svolga una funzione politica. Questo emerge chiaramente in punto di pena: Trump potrebbe rischiare una pena fino a quattro anni di reclusione, la probation, ossia gli arresti domiciliari o la libertà vigilata, ovvero la multa. Il Giudice Merchan ha però già affermato da tempo la sua riluttanza a comminare una pena limitativa della libertà personale date le “ampie implicazioni” che essa comporterebbe se applicata ad un soggetto politico, così che se mai la sentenza di comminazione della pena sarà pronunciata sicuramente risulterà influenzata dalle peculiari qualità politiche del reo. La vicenda fornisce allora lo spunto per alcune considerazioni rilevanti sul sistema della bifurcation processuale statunitense. Alle origini di un simile sistema si colloca la undue prejudice rule la quale impone di attenersi strettamente alla res iudicanda nella prima fase del processo, il c.d. guilt fact-finding, che deve dunque rimanere scevra di ogni considerazione su personalità e passato dell’imputato evitando così il rischio di un disorientamento della giuria, la quale si pronuncerà in un provvedimento di condanna o assoluzione sulla base del solo fatto di reato contestato5. Rilegate, invece, alla seconda fase postdibattimentale di sentencing risultano tutte quelle operazioni che, con riferimento alle caratteristiche oggettive del fatto storico e a quelle soggettive del suo autore, ineriscono al procedimento di determinazione della pena applicabile al caso concreto 6. Nata nella forma di un indeterminate sentencing, la fase di commisurazione della pena risultava dominata da una piena discrezionalità del giudice al quale, in quanto titolare del diritto di ricevere «la più completa prospettazione di fatti e circostanze idonei ad illuminare la personalità dell’imputato»7, spettava l’individuazione della giusta pena alla luce della frattura sociale determinata dal fatto di reato e sulla base del c.d. presentence report realizzato da un organo amministrativo, il c.d. probation officer, al quale era riconosciuto un sostanziale monopolio istruttorio caratterizzato dall’assenza di contraddittorio e una ricognizione pressocché illimitata nella ricostruzione della personalità dell’interessato; non solo, la discrezionalità piena del giudice era rilevabile anche alla luce dell’assenza di un obbligo di motivazione della sua decisione e della sostanziale inappellabilità di quest’ultima 8. Un simile modello entrò tuttavia in crisi a causa di diversi fattori fra cui il sovraffollamento carcerario, la conseguente crisi dell’ideale riabilitativo e riemersione di istanze retributive ed infine l’insorgere di una profonda diffidenza verso la discrezionalità giudiziaria così che venne meno la convinzione per cui attraverso il processo penale si potesse incidere positivamente sulle diverse forme di devianza criminale 9. Tale crisi ha rappresentato l’occasione per l’approntamento, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, di un nuovo sistema, quello del c.d. determinate sentencing, volto a stabilire dei criteri di commisurazione della pena per singoli fatti di reato o categorie di reati che potessero porre fine alla prassi ingeneratasi nel tempo di sentenze diverse pronunciate per medesimi fatti di reato, frutto di un’eccessiva discrezionalità giudiziaria. Vennero a tal fine istituite delle Commissioni, sia a livello federale che statale, competenti a creare un sistema di linee guida che, partendo dagli elementi costitutivi del fatto, passando per la dimensione concreta del reato poi arrivava alla raccomandazione di una sentenza di condanna. Un sistema, a ben vedere, fin troppo rigido poiché basato su condotte illecite tipiche e conseguentemente incapace di ricoprire la totalità dei fatti che potevano verificarsi in concreto. Rilevato un simile limite, si introdusse allora la possibilità per il giudice di disallinearsi dalla recommended sentence laddove il fatto concreto lo avesse richiesto con la previsione però di un obbligo di motivazione funzionale a non vanificare l’intento delle guidelines stesse ossia garantire uniformità e proporzionalità nelle sentenze di condanna 10.  

2. A chi spetta la determinazione della pena? Storia di un’indebita commistione di ruoli 

La distinzione tra giudizio sul fatto e giudizio sul suo autore, fondata sull’idea che sarebbe maggiore il pregiudizio derivante dal rendere conoscibile al soggetto decidente i precedenti penali dell’imputato rispetto alla loro rilevanza probatoria, non è del tutto estranea all’esperienza italiana. Si pensi a titolo esemplificativo al progetto di proposta del codice di procedura penale del 1978 che prevedeva, ai sensi dell’art. 518, la riapertura del dibattimento al fine di procedere a perizia criminologica così da consentire un’indagine sulla personalità del reo distinta e successiva rispetto all’accertamento sul fatto. Giudicata negativamente questa proposta, soprattutto in ragione di un potenziale aggravio dei lavori che sarebbe stato conseguenza inevitabile di un simile sdoppiamento,  il modello di common law però non venne definitivamente dimenticato ed infatti nel 2001 fu la commissione per la riforma del codice penale presieduta dal Professor Grosso a riproporre una «bifasicità» solo eventuale nel senso cioè di prevedere una distinzione tra pronuncia sulla responsabilità e pronuncia sulla sanzione solo in quei casi in cui fossero necessari approfondimenti ai fini della determinazione della giusta pena 11. Nonostante che da simili progetti non sia scaturito alcun mutamento di paradigma nel nostro ordinamento, risulta tuttavia opportuno interrogarsi sulle rationes che ne costituivano il fondamento così da interrogarsi sulla possibilità che queste ultime permangano tutt’oggi.  Il primum movens a sostegno del modello del processo bifasico deve essere individuato nel tramonto della centralità del giudice di cognizione nel momento di dosaggio della pena detentiva ed infatti «la pena, quando c’è, è precaria, perché sfuma in un labirinto di alternative, giudiziali ed esecutive, che riducono la condanna giudiziale a pena teorica, rispetto alla quale la pena effettiva è, al massimo, una semplice frazione, spesso modesta, e comunque soggetta a variabili di ogni tipo» 12. Il giudice della cognizione nel determinare la “giusta pena” è chiamato a svolgere un’attività ermeneutica di collegamento tra la generalità ed astrattezza della norma e la peculiarità della vicenda concreta, dovendo altresì prescindere dal consenso sociale e ricercare quella pena che sia proporzionata al fatto di reato, non diversamente afflittiva rispetto a casi simili e orientata verso la rieducazione secondo il dictum costituzionale 13, così che si è detto che «il compito dei giudici, novelli Minosse dell’inferno attuale, è quello di trasformare l’illimitatezza del desiderio di punizione collettivo in una pena limitata, basata su una ricostruzione narrativa razionale, che permetta di assegnare la fattispecie concreta ricostruita alla fattispecie astratta interpretata prevista dalla norma penale» 14. Nel fare ciò l’unico appiglio fornito ai giudici è dato dagli artt. 132 e 133 c.p. i quali rendono, l’uno ponendo un limite processuale rappresentato dall’obbligo di motivazione e l’altro un sistema di limiti interni consistente in un complesso di criteri direttivi (assolutamente generici), la discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena apparentemente giuridicamente vincolata 15. Apparentemente per due ragioni: la prima è data dal «vuoto di fini» che caratterizza l’art. 133 c.p. nel senso che al giudice non è fornito nemmeno il parametro teleologico di commisurazione così che gli si affida «un potere arbitrario caratterizzato dall’intuizione. Si addossano al giudice prognosi in termini di pericolosità – non pericolosità per i fini più diversi (dalla sospensione condizionale alle misure di sicurezza, dalle sanzioni sostitutive all’affidamento in prova), ma difettano parametri sicuri per definire la prognosi e talora gli strumenti stessi su cui formarla» 16. Si deve altresì aggiungere che l’art. 133 c.p. richiede al giudice di scegliere quale pena applicare anche in considerazione della capacità a delinquere del reo senza però poterne conoscere la personalità – ma piuttosto solo considerando istituti come la recidiva, la abitualità o professionalità del reato – stante il dictum dell’art. 220, co. 2 c.p.p. che sancisce il divieto di perizia psicologica limitatamente alla fase cognitiva. Un simile divieto, la cui ratio è da individuarsi nella necessità di non aggravare le tempistiche del processo penale e soprattutto di evitare un pregiudizio nell’obiettività di chi è chiamato a decidere a tutela della presunzione di non colpevolezza, è al contempo causa dell’«insuccesso pratico dell’art. 133 c.p.» 17. Così non sarebbe, tuttavia, se si introducesse la separazione della decisione sulla responsabilità da quella sulla pena come avviene nel modello statunitense in cui i pre-sentence reports costituiscono una base fondamentale ai fini della commisurazione della pena 18. La seconda ragione è invece da ricollegare all’obbligo di motivazione ex art. 132 c.p. del quale la Corte di Cassazione ha consentito una gestione pressocché disinvolta avallando «motivazioni stereotipate, fatte di formulette stilistiche che diventano ancor meno stringenti se la pena staziona intorno al minimo edittale», quasi come se la motivazione fosse garanzia per il solo imputato, come tale superflua quando egli abbia fruito di un trattamento sufficientemente “benevolo”. Un disinteresse in ordine all’obbligo di motivazione di cui all’art. 132 c.p. che deriva anche dalla pretesa, per così dire irrealistica, che i giudici offrano al reo e al popolo il quantum di pena adeguato immediatamente dopo essere addivenuti faticosamente alla complessa decisione sul merito del giudizio 19. Un simile intuizionismo nella determinazione della pena è tollerato anche grazie alla consapevolezza che spetterà ad un altro magistrato rimodulare il contenuto sanzionatorio della sentenza sia dal punto di vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo, così che il risultato è quello di una pena che assume un rilievo meramente virtuale nel momento in cui è determinata dal giudice della cognizione 20. La sanzione penale risulta infatti sempre più «una realtà giuridica in divenire»21, modificabile sia dal giudice dell’esecuzione sia dalla magistratura di sorveglianza: dal primo, ad esempio, sotto il profilo quantitativo ex art. 671 c.p.p. in forza del quale il giudice ha la facoltà di rivalutare questioni coperte da giudicato in modo tale da determinare se esse appartengano ad un medesimo disegno criminoso, potendo in tal caso applicare il cumulo giuridico e modificare sensibilmente la pena22. Nella fase post rem iudicatam risulta però ancora più consistente il potere del Tribunale di sorveglianza il quale ha visto con il tempo mutare la sua tradizionale funzione «passata da quella di tutela della legalità nelle carceri, a quella di “garante” dell’esecuzione penale, responsabile della effettività della pena, unico referente dell’an, quantum, quomodo e quando di essa»23. Questo mutamento di “natura” del Tribunale di sorveglianza è l’inevitabile conseguenza di strutturare la fase di esecuzione della pena in funzione rieducativa la quale, per definizione, esige flessibilità nell’attuazione del contenuto della sentenza di condanna 24. A ben vedere dunque un processo bifasico, seppur parziale (poiché non riguarda tutte le pene inflitte) ed imperfetto (poiché riguarda il solo profilo qualitativo della pena), si ha da tempo data la divisione di ruoli che vede il Tribunale di sorveglianza modificare qualitativamente la pena detentiva in misura alternativa. Non solo, dopo circa un decennio dall’entrata in vigore della legge di ordinamento penitenziario (l. n. 354 del 1975) iniziò a cambiare anche il rapporto tra l’organo collegiale e la pena; vi fu infatti una vera e propria svolta a partire dalla modifica dell’art. 656, co. 5 c.p.p. secondo il quale nei confronti dei condannati che devono scontare una pena non superiore a quattro anni 25 (seppur con alcune eccezioni) il p.m., dopo l’irrevocabilità della sentenza di condanna, ordina l’esecuzione della pena ma nel contempo, se il condannato è libero, dispone la sua automatica sospensione, per consentire allo stesso di presentare domanda di misura alternativa. Ciò significa che, venuta meno la condizione dello status detentionis ai fini della concessione della misura alternativa, il Tribunale di sorveglianza, non potendo decidere sulla base di risultati derivanti dall’osservazione in carcere, dovrà farlo sulla base dei criteri già utilizzati dal giudice della cognizione in sede di commisurazione della pena ossia quelli di cui all’art. 133 c.p.26. Le “storture” fino a qui analizzate portano a guardare con favore al modello anglosassone del processo bifasico che conosce due varianti: la prima, per così dire tradizionale, fatta propria dal Progetto Grosso e ricalcante le orme statunitensi, prevede che il giudice della cognizione, al momento della pronuncia della sentenza di condanna, differisca ad una successiva udienza la decisione sul trattamento sanzionatorio quando appaia necessario acquisire ulteriori elementi di prova, anche con riferimento alla personalità dell’imputato, ai fini della determinazione della giusta pena. La seconda variante invece prevede che il giudizio di commisurazione della pena venga fatto dopo il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della colpevolezza trasformando il tribunale di sorveglianza in un vero e proprio “tribunale delle pene” cui affidare, per intero, le decisioni relative al trattamento sanzionatorio dell’imputato. Quest’ultima appare di primo acchito preferibile poiché consente di porre fine alla prassi di un sostanziale sacrificio del momento di determinazione della pena derivante da un dibattimento ormai polarizzato sull’accertamento di responsabilità 27, ma al tempo stesso risulta maggiormente coerente con la tradizione di civil law propria del nostro ordinamento, manifestandosi come una sorta di evoluzione sistematicamente disciplinata di ciò che avviene già nella realtà dei fatti 28. Anche quest’ultima soluzione tuttavia pone delle criticità date dal fatto che la scelta o il dosaggio del trattamento sanzionatorio non è – né potrebbe esserlo – soltanto un problema di valutazione della personalità del reo in chiave rieducativa, ma coinvolge piuttosto molti accertamenti di natura oggettiva i quali richiederebbero un procedimento avente struttura conforme all’art. 111 co. 4 e 5 Cost. Tutto questo comporterebbe l’attribuzione al “tribunale della pena” del compito di ricostruire nuovamente il fatto di reato, a distanza di tempo, seppur per lo svolgimento di valutazioni diverse da quelle già svolte dal giudice di cognizione. È stata allora prospettata in dottrina una soluzione intermedia secondo cui il giudice della cognizione dovrebbe non soltanto accertare la responsabilità dell’imputato ma anche saggiare, con le forme e garanzie proprie della giurisdizione cognitiva, un grado oggettivo di colpevolezza del reo destinato a segnare il limite massimo invalicabile nella commisurazione della pena, lasciando invece la definitiva commisurazione e individualizzazione della pena alla fase esecutiva 29

3. Un’udienza di sentencing nel panorama italiano: il “nuovo” art. 545-bis c.p.p.

L’opportunità di introdurre un carattere bifasico nel processo penale italiano è stata di recente avvertita dal d. lgs. 150/2022 (c.d. riforma Cartabia) in materia di pene sostitutive della detenzione per le quali è stata introdotta, seppur in via del tutto eventuale, una vera e propria udienza di sentencing ai sensi dell’art. 545-bis c.p.p. Il disegno della riforma ha avuto il merito di realizzarsi mediante la riaffermazione del giudice della cognizione come giudice della pena: annullato il meccanismo di separazione del momento di affermazione della responsabilità e di irrogazione della pena da quello esecutivo, il giudice della cognizione può disporre, laddove ne ricorrano le condizioni previste dalla legge, l’applicazione di una pena sostitutiva ex art. 20-bis c.p. così da ridimensionare notevolmente il ruolo della magistratura di sorveglianza in materia di misure alternative alla detenzione ed anche il fenomeno dei c.d. liberi sospesi determinato dalla possibilità si sospendere l’ordine di esecuzione per pene detentive sotto i quattro anni introdotta dalla legge Simeone (l. 165/1998). In particolare, il giudice della cognizione, quando riterrà applicabile una pena inferiore a quattro anni, non “passerà più la palla” al Tribunale di sorveglianza (chiamato poi a decidere sulla misura alternativa) ma diventerà immediatamente anche giudice della pena, con un risvolto di responsabilizzazione dello stesso nell’ambito della individualizzazione del trattamento sanzionatorio 30. Il giudice della cognizione tuttavia non è tenuto a decidere per la pena sostitutiva immediatamente emergendo in tal senso un elemento di bifasicità solo eventuale. Il nuovo art. 545-bis c.p.p. prevede infatti che il giudice, subito dopo la lettura del dispositivo della sentenza di condanna, laddove in astratto ricorrano le condizioni dettate dall’art. 53 della l. n. 689 del 1981 ai fini dell’applicazione di una pena sostitutiva, ne dia avviso alle parti per la fissazione di un’udienza ad hoc non oltre sessanta giorni, con conseguente sospensione del processo. Tale udienza, ed ecco il carattere eventuale della bifasicità, viene celebrata solo ove il giudice ritenga di non poter decidere immediatamente sulla sostituzione data la necessarietà dell’acquisizione, grazie all’ausilio della p.g. e/o dell’UEPE territorialmente competente, di elementi ulteriori in relazione alle condizioni di vita, personali, familiari, sociali, economiche e patrimoniali dell’imputato nonché certificazioni di disturbo da uso di sostanze alcoliche o stupefacenti ovvero da gioco d’azzardo e il programma terapeutico che il condannato abbia in corso o a cui intenda sottoporsi 31. Tutto questo bagaglio conoscitivo di cui il giudice deve talvolta dotarsi si spiega alla luce delle finalità cui devono tendere le pene sostitutive ai sensi dell’art. 58 della l. n. 689 del 1981, nel testo sostituito dall’art. 71 del d. lgs. n. 150 del 2022, ossia la rieducazione del condannato e la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati, le quali peraltro impongono al giudice uno specifico obbligo di motivazione 32. Con questo segmento processuale che sospende il processo quando la decisione è già adottata, la responsabilità dell’imputato già accertata, la pena da irrogare già comminata «si realizza un’anticipazione dell’alternativa al carcere all’esito della cognizione […] e la riduzione dei procedimenti davanti al Tribunale di sorveglianza (poiché) l’efficienza della giustizia penale non può ragionevolmente essere rapportata al solo processo di cognizione» 33. Questa riforma ha allora avuto l’evidente pregio di aver recuperato una certa “proporzione tra gli spazi” andando a superare, seppur limitatamente alle pene sostitutive, quella summa divisio che nel tempo è andata a separare sempre più la fase della cognizione da quella dell’esecuzione; una separazione che è divenuta, come è stato detto in dottrina, «una frattura culturale interna» poiché non è solo un problema di «estenuazione del giudice che vuole chiudere la motivazione dopo aver affrontato gli aspetti più problematici del processo (ossia quelli fattuali), ma è proprio ritenere quasi sempre meno problematico il profilo della pena dato che, “per tradizione culturale”, è quasi il mestiere di un altro ossia del giudice dell’esecuzione» 34. Spontanea allora sorge una domanda: questa «trasformazione culturale» 35 richiesta al giudice della cognizione nell’ambito delle pene sostitutive non la si potrebbe estendere genericamente al processo penale latu sensu inteso? Si tratterebbe cioè, al fine di sanare la frattura creatasi in via di prassi tra cognizione ed esecuzione e conseguentemente di restituire la sua rilevanza alla determinazione della pena in funzione rieducativa già in fase cognitiva, di introdurre una separazione tra il momento dell’accertamento della responsabilità e il momento commisurativo così riportando il Tribunale di sorveglianza nella sua originaria realtà ossia quella penitenziaria 36.  

3.1. Il passo indietro del decreto correttivo n. 31 del 2024

La prospettiva così esaminata sembra tuttavia di difficile realizzazione a causa della resistenza all’apertura verso un modello di sentencing che si è manifestata già con riferimento alla disciplina limitata alle pene sostitutive introdotta dalla riforma Cartabia. Ciò emerge chiaramente dal decreto legislativo 19 marzo 2024 n. 31 il quale, recante disposizioni integrative e correttive del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, all’art. 2, co. 1 ha fortemente ridimensionato, a detta di taluno in maniera assai inopportuna e intempestiva 37, l’udienza di sentencing. Le principali perplessità sorgono con riferimento al superamento dell’obbligatorietà dell’avviso alle parti della sostituibilità della pena contenuto originariamente nel primo comma dell’art. 545-bis c.p.p. Tale avviso, in particolare, era subordinato ad un vaglio astratto di ammissibilità dovendosi cioè valutare solo l’assenza delle condizioni soggettive ostative alla sostituzione ex art. 59 l. n. 689 del 1981 e conseguentemente, laddove si stesse sotto il limite di quattro anni di pena, aprire necessariamente una discussione sulla possibilità di sostituirla. Oggi invece si prevede che tale dibattito si apra esclusivamente laddove il giudice ritenga concretamente applicabile la pena sostitutiva con il rischio evidente che per risparmiare tempo effettui un vaglio implicito negativo andando persi del tutto i vantaggi connessi all’applicazione di una pena in ottica rieducativa già in fase di cognizione. L’eliminazione dell’avviso ha altresì determinato quella della manifestazione del consenso emergendo così il problema di quando quest’ultimo debba essere dato. La risposta ad un simile problema viene dalla prassi: «lo si potrebbe esprimere nelle conclusioni in dibattimento ma ciò significherebbe costringere l’avvocato ad anticipare nella fase di discussione sulla responsabilità una volontà che attiene alla tipologia di pena con l’ulteriore rischio che l’avvocato non lo faccia e che poi, per non precludersi la sostituzione, la chieda mediante atto di appello» 38. Tutta questa operazione di restyling deriva, all’evidenza, da una diffusa sfiducia verso l’originaria formulazione dell’art. 545-bis c.p.p. accusato di determinare rallentamenti processuali inutili. Tuttavia, l’efficienza andrebbe valutata non con riferimento alla singola fase, in una sorta di monadismo giudiziario, ma alla luce dell’intero sistema compresa la fase dell’esecuzione, la quale senza dubbio risultava fortemente “alleggerita” dall’udienza di sentencing 39.

Note

  1. Cfr. seduta del 25 aprile 2024 della Corte Suprema rinvenibile su https://www.lawfaremedia.org/current-projects/thetrump-trials/new-york
  2. Il caso riguarda le accuse di falsificazione di documenti aziendali al fine di nascondere i pagamenti in denaro avvenuti in favore di Stormy Daniels, attrice e regista di film per adulti.
  3. Si tratta in particolare di alcuni Tweets pubblicati da Trump in cui esprimeva la sua opinione sul suo avvocato e in cui presentava osservazioni su un contratto stipulato dal suo avvocato con Stormy Daniels.
  4. «Even assuming that the Tweets constitute official conduct, they at most give rise to a presumption of immunity that is easily rebutted here. […] The presumption can be rebutted if consideration of these Tweets would not pose any dangers of intrusion on the authority and functions of the Executive Branch. […] There is no such danger here because the subject matter of the Tweets bore no relationship to any official duty of the presidency», https://www.lawfaremedia.org/current-projects/the-trump-trials/new-york.
  5. F. MANFREDI, La recidiva nel quadro di commisurazione della pena. Orientamenti recenti negli USA e in Europa, ADIR – L’altro diritto, 2015.
  6. G. MANNOZZI, Sentencing, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. XIII, UTET, Torino, 1991, p. 152.
  7. Secondo quanto stabilito dalla Supreme Court nella sentenza Williams v. New York del 1949.
  8. S. CANNATA, La commisurazione della pena nel sistema federale statunitense, ADIR – L’altro diritto, 2002.
  9. Ibidem S. CANNATA, La commisurazione della pena.
  10. K. L. MITCHELL, State sentencing guidelines. A garden full of variety, Robina Institute of criminal law, University of Minnesota law school, vol. 81, n. 2, 2017.
  11. E. E. A. DEI CAS, Sentencing inglese e prospettive di un processo bifasico in Italia, op. cit., p. 5.
  12. T. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., n. 2/1992, p. 420.
  13. G. MANNOZZI, La commisurazione giudiziale: la vicenda sanzionatoria dalla previsione legislativa alla prassi applicativa, Riv. It. Dir. Proc. Pen., n. 3/2013, p. 1240.
  14. A. VERDE, Come si giustifica chi rende giustizia?, in Criminalia, 2011, p. 377.
  15. E. DOLCINI, La commisurazione della pena tra teoria e prassi, Riv. It. Dir. Proc. Pen, n. 1/1991, p. 55.
  16. T. PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio, op. cit., p. 427. Cfr. Cass. pen. 9 ottobre 1984, in Riv. Pen. 1985 p. 440 secondo cui «l’irrogazione della pena nella sua concretezza più che un processo logico, costituisce il risultato di un’intuizione, conseguente ad una valutazione globale dei fatti e della personalità del reo, incensurabile in Cassazione se adeguatamente motivata».
  17. G. CONSO, Prime considerazioni sulla possibilità di dividere il processo in due fasi, Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1968, pp. 706 e ss.
  18. E. E. A. DEI CAS, Sentencing inglese e prospettive di un processo bifasico in Italia, op. cit., pp. 21 e ss.
  19. F. COPPOLA, Le scelte sanzionatorie alla prova del principio di proporzionalità. Un’ipotesi di “valorizzazione” dal confronto con il Sentencing System inglese, Archivio penale, n. 3/2018, p. 12 ed E. DOLCINI, La commisurazione della pena, op. cit., p. 59.
  20. L. MONTEVERDE, Tribunale della pena, processo bifasico e giusto processo, Rassegna penitenziaria e criminologica, 2002, p. 153.
  21. P. PITTARO, La sanzione penale come realtà giuridica in divenire, in Esecuzione penale e alternative penitenziarie a cura di A. PRESUTTI, CEDAM, Padova, 1999, p. 256.
  22. E. E. A. DEI CAS, Sentencing inglese e prospettive di un processo bifasico in Italia, op. cit., p. 36.
  23. Cfr. la relazione fatta dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002.
  24. G. GIOSTRA, Tre settori da differenziare nei rapporti tra giurisdizione ed esecuzione penale, Riv. It. Dir. Proc. Pen., n. 4/1981, p. 1348.
  25. Cfr. sentenza Corte costituzionale n. 41 del 2018 rinvenibile su www.giurcost.org.
  26. L. MONTEVERDE, Tribunale della pena, op. cit., pp. 159 e ss. Secondo L. SCOMPARIN «sembra possibile individuare una tendenza – normativa e giurisprudenziale – ad una lenta trasformazione dei contenuti del giudizio di sorveglianza che quasi pare rinunciare ad alcuni tratti che lo caratterizzavano come giudizio “sulla persona” per avvicinarsi ad un giudizio “sui fatti” maggiormente assimilabile a quello proprio della giurisdizione più marcatamente cognitiva», in Istanze rieducative e nuovi modelli di giurisdizione penale: l’identità perduta della magistratura di sorveglianza, Riv. It. Dir. Proc. Pen., n. 4/2012, pp. 1415 e ss.
  27. Così si legge in una relazione presentata dal C.S.M. nell’incontro di studio su Il sistema delle sanzioni penali tenutosi a Roma nel marzo 2002.
  28. L. MONTEVERDE, Tribunale della pena, op. cit., pp. 165 e ss.
  29. E. A. A. DEI CAS, Sentencing inglese e prospettive di un processo bifasico in Italia, op. cit., pp. 47 e ss.
  30. G. DE SANTIS, La scommessa delle nuove pene sostitutive – I parte, Responsabilità civile e previdenza, n. 2/2023, pp. 693 e ss.
  31. D. GUIDI, La riforma delle “pene” sostitutive, La legislazione penale, 25/02/2023, p. 19.
  32. G. BIONDI, L’applicazione di pene sostitutive di pene detentive brevi nella fase di cognizione del processo penale, Sistema penale, n. 2/2024, pp 102 e ss. L. EUSEBI, Rieducazione e prospettive di riforma del sistema sanzionatorio penale dopo il d. lgs. n. 150/2022, Sistema penale, 10 aprile 2024, pp. 16 e ss.
  33. Cfr. Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134, p. 186.
  34. P. GAETA, Ragionando su alcuni ossimori della riforma delle pene sostitutive, Riv. It. Dir. Proc. Pen., n. 2/2023, pp. 583 e ss.
  35. Così ne parla D. GUIDI, La riforma delle “pene” sostitutive, op. cit., p. 42.
  36. L. MONTEVERDE, Tribunale della pena, op. cit., p. 155.
  37. M. GIALUZ, Osservazioni sui correttivi alla riforma Cartabia tra rettifiche condivisibili, qualche occasione perduta e alcune sbavature, Sistema penale, 2024, p. 7. Ma anche D. BIANCHI, Il decreto correttivo in materia di pene sostitutive: interventi ragionevoli, semplificazioni eccessive e occasioni mancate, Legislazione penale, 2024.
  38. M. GIALUZ, Osservazioni sui correttivi della riforma Cartabia tra rettifiche condivisibili, qualche occasione perduta e alcune sbavature, op. cit., pp. 7 e ss.
  39. Si vedano le rilevazioni del Ministero della Giustizia di metà gennaio 2024 secondo cui risultavano applicate circa 2.000 pene sostitutive, numero assai significativo se si considera che a fine maggio 2023 le pene sostitutive applicate erano solo 98 e a metà novembre già 1.472.

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